giovedì 24 ottobre 2013

Smart Cities, una visione 3.0 per il futuro delle città

“Smart Cities, gestire la complessità urbana nell’era di internet” di Michele Vianello (Maggioli
Editore) è un libro che potrebbe sembrare dedicato a professionisti di urbanistica e tecnologia o a pubblici amministratori. In realtà, per l’argomento che tratta e per l’impostazione data dall’autore, ha un orizzonte più ampio di quello che il titolo vorrebbe offrire. Il tema infatti non è tanto la città, come fisicamente la immaginiamo o la vediamo, quanto la possibilità di viverla e di plasmarla secondo le innovative possibilità che offre internet, la condivisione del social networking, il cloud computing, il crowdsourcing e tutto quanto è messo a disposizione dalla tecnologia ICT (Information and Communication Technology). E, come ripetutamente ci ricorda Vianello, la città intelligente non è un insieme di hardware e software, bensì “il luogo dove le persone, usando consapevolmente il web, beneficiano di conoscenza diffusa, la vivono e la implementano costantemente attraverso le loro attività”; è un processo, in continua evoluzione, perché in continua evoluzione sono quei fattori abilitanti che facilitano la condivisione dei dati e delle informazioni (tra city users e Governance della città, ma in maniera bidirezionale), creando conoscenza e facilitando lo sviluppo e il miglioramento della qualità della vita.
Un esempio banale, ma utile a capire il concetto, è quello del traffico (pag. 44): “i commenti che ognuno di noi posta su Twitter ogni mattina taggati #traffico possono costituire una fonte infinita di conoscenza generata “sul campo”, a disposizione di una Governance cittadina che deve concordare decisioni in materia di viabilità pubblica.

Ma è quasi riduttivo confinare questa visione in una city, è l’immagine del futuro di qualsiasi comunità.

Naturalmente, alla base di tutto c’è il web, come strada dove viaggiano i dati, e gli oggetti, che dialogano grazie ad esso (internet of things). Ma non solo. La comunicazione e la condivisione è tra oggetti, persone, processi: sono le persone intelligenti che fanno gli oggetti smart. Siamo certi che anche l’autore supererebbe la definizione di Internet of Things per approdare a quella di Internet of Everything.

The Internet of Everything is the intelligent connection
of people, process, data and things.



Tutta la prima parte del libro è dedicata a descrivere la vision della smart city, fino ad una sintesi di principi per definire compiutamente e schematicamente la città intelligente e la rivoluzione che si porta dietro.

59. La città intelligente, la fine di tutte le vostre certezze. L’inizio di una società migliore

Se ci fermiamo a riflettere, l’uso di smartphones e delle apps, piuttosto che dei social network oppure di Skype, ha cambiato e migliorato la vita quotidiana e, in particolar modo, professionale di molti di noi, ma l’appello che lanciano i capitoli del libro, alle Pubbliche Amministrazioni in particolare, è di esserne consapevoli e permettere di aumentarne le potenzialità. Ed uno dei tanti ostacoli da superare è quello della privacy per aprire i dati e le informazioni che sia i privati che il pubblico producono di continuo. Il flusso dei dati va aperto perché “la città così impara e insegna”, ma serve una nuova consapevolezza sul valore da dare alla privacy. Secondo l’autore, è la Governance della città intelligente (intesa non solo come istituzioni democratiche ma allargata agli stakeholder della city) ad acquisire tale consapevolezza, promuovendo, per finalità pubbliche, pratiche di condivisione di apertura dei dati.

La seconda parte del libro decreta la fine della pianificazione strategica delle città: se nel ‘900 si pianificava lo sviluppo di una città destinando aree alle varie attività umane (sociali ed economiche), finendo col consumare territorio in periferia, la tecnologia ICT consente di superare le necessità dello spazio fisico e temporale dei lavoratori per le loro attività, evitando così di progettare ulteriori espansioni urbane.
Si devono muovere i dati, non l’uomo, consentendo al lavoratore di non spostarsi da casa, di lavorare per obiettivi (e non per orario) e alla città di respirare, diminuendo le congestioni di traffico per gli spostamenti delle persone verso i luoghi di lavoro. Il lavoro si decontestualizza.

In molti punti, l’autore sottolinea le conseguenze positive sull’ambiente (per il traffico, per il risparmio energetico) di questa rivoluzione; così come non dimentica la necessità di superare il digital divide tra generazioni e tra comunità o classi di persone.

Nella parte finale vengono poi descritti alcuni progetti di innovazione intelligente della città: dalla scuola sostenibile ai trasporti intelligenti, dalla Smart Health alla dashboard per la Governance. Infine si cerca anche di dare dei consigli di ordine organizzativo ad un potenziale sindaco che volesse aggiungere nel proprio programma elettorale l’obiettivo di rendere smart la propria città (del resto l’autore è stato Vicesindaco di Venezia).
E’ chiaro che sono necessari alcuni fattori (wifi, open data by default, cloud computing, pratiche di bring on your device, partecipazione dei city users), ma la Pubblica Amministrazione insieme ai principali attori della città devono superare gli ostacoli per lo più culturali affinché l’innovazione tecnologica possa produrre sviluppo sostenibile economico e sociale (principio n. 3: la città intelligente è popolata da persone e imprese intelligenti, ed è amministrata da Governance intellingenti).

L’hardware per una smart city esiste già, quello che manca è il coraggio di sognare.

Ogni qual volta nella società si manifesta una devianza di un certo rilievo, i paladini dello status quo insorgono per denunciare pubblicamente l’immoralità. Liberare gli schiavi fu proclamato immorale. Lo stesso avvenne per il voto alle donne, per non parlare del movimento per il lavoro femminile. Qualche generazione dopo, la maggiora parte di noi è giunta alla conclusione che a essere immorale era lo status quo – perlomeno riguardo a tali questioni – e che la nuova normalità (quella ai tempi bollata come devianza) configura anche la nuova etica. No, essere strambi non significa essere immorali.

Questa la citazione di Seth Godin (“Siamo tutti strambi. La nuova era del marketing su misura”, Sperkling&Kupfer, 2011) con cui si conclude il libro invitando a riflettere sulla visione al futuro che le sue pagine contribuiscono a darci.




Commentate pure, meglio però se non siete d’accordo



Nessun commento:

Posta un commento